Stamattina in prima pagina sul giornale Il Mattino : «Così papà picchia mamma», la violenza ora si cura in 3D.
Il nostro progetto ViDaCS – un attimo prima: volto a prevenire gli episodi di violenza domestica, con il punto di vista di un bambino, utilizzando le tecnologie immersive per innescare un transfer virtuale e riattivare i canali emotivi, in collaborazione con la Federico II.
Ecco quanto riportato dall’inviato del Mattino, che ha voluto immergersi nella realtà virtuale nel gaming in 3D del progetto ViDaCS: “Metti un bambino di dieci anni che guarda la tv nella sua cameretta. Il campanello della porta di casa squilla freneticamente. Poi, arriva il turno del telefono di casa. Nessuno va a rispondere. Il bambino sa che, dentro, c’è la mamma che armeggia in cucina. Sarà lei ad aprire la porta, ne è sicuro. Quel bambino sono io, i grossi occhiali neri mi hanno immerso in quella cameretta. C’è il mio lettino, la scrivania, il televisore a parete. Sono io tornato piccolo, o è il piccolo lì dentro in 3D che è entrato in me. È arrivato mio padre, forse aveva dimenticato qualcosa ed è tornato indietro.
Lo sento urlare, è già nervoso. Non sarà che si è arrabbiato perché, invece di andare ad aprirlo, ho preferito avvisare la mamma che bussavano alla porta? Preferisco non approfondire, forse dovevo rispondere al telefono e neanche quello ho fatto. Sono chiuso nel mio mondo, nella mia cameretta. Al sicuro. Meglio immergermi nei miei compiti di scuola, meglio mettermi a fare il mio dovere, non si sa mai, mio padre potrebbe arrabbiarsi ancora di più.
Urlano, sento rumori, in un crescendo. La voce di mio padre, quella di mia madre. Botta e risposta, non è la prima volta. «Sei sempre la solita, non fai mai nulla dalla mattina alla sera, stai sempre con il tuo smartphone. Una fallita, come tuo figlio che è una nullità».
Preferisco non sentire, mi tappo le orecchie. Non voglio ascoltare e meno male che c’è la tv. Alzo il volume, che mi chiude qui dentro e mi isola dai loro continui litigi. Non voglio pensare, ho solo dieci anni, non voglio credere che mio padre e mia madre non si sopportino, che possano farsi del male, che mi abbandonino. Non voglio.
Ogni occasione è un urlo, ogni pretesto un rinfaccio. Non voglio sentire, la tv non basta, sono troppo distratto per fare i miei compiti. Smettetela, smettetela, ma è come se io non esistessi. Busso, picchio forte sulla porta della mia cameretta. Ma non mi sentono, non si curano di me, come se io non esistessi, come se qui ci fosse un fantasma. Forse, mio padre pensa davvero che sono un nulla, che non vale la pena di darmi attenzione, di ricordarsi che anche io esisto, che anche io posso sentire le loro urla.
No, no, no, non resisto più a stare qui dentro, a subire questa tortura. Non sono un supereroe. Ecco, vado via. È l’unica cosa da fare. Apro la porta della cameretta e, senza guardare cosa stanno facendo i miei genitori, tiro diritto verso l’ingresso. Addio, ci vediamo dopo, continuate a litigare tanto io non vi sentirò più. Apro, corro, non sono lucido, mi scappa una lacrima, sono preoccupato, ho l’ansia, ho paura di essere abbandonato. E non guardo, non sono attento. Tiro diritto, corro, non fa nulla che non sono più sul marciapiedi. Ecco, la mia casa è dietro, voglio allontanarmi. Voglio e…si sente una frenata brusca. Inutile. Non faccio più parte della storia. Anzi, la storia in cui sono immerso, di cui ero il faro, finisce qui.
«La vita non offre scelte multiple, farlo dopo è troppo tardi. Qualsiasi cosa tu abbia scelto, ora è relativo. Le scelte da compiere nella realtà non sono un videogioco».
La realtà virtuale cerca di immedesimare lo spettatore nelle sensazioni e nell’orrore della violenza. Nella terapia sperimentale, messa a punto da noi di Villa delle Ginestre che vede Annamaria Schena come direttrice generale e coordinata dall’Università Federico II attraverso la docente psicologa Caterina Arcidiacono, la storia virtuale è ambientata tutta in una famiglia. Un progetto finanziato dall’Unione europea, destinato a prevenire le violenze in famiglia.
Da oggi, la sperimentazione inizia con pazienti uomini che si sono rivolti ai centri antiviolenza per curarsi.
«Abbiamo pensato che l’impatto maggiore per un paziente violento fosse immergerlo nelle reazioni che ha un bambino in una famiglia dove si litiga sempre – spiega la professoressa Caterina Arcidiacono – Uno strumento di prevenzione, insomma, ma anche di cura. Esiste una cultura di giustificazione sulle tensioni familiari, che possono sempre scatenare comportamenti violenti. Capire quanto incidano su certe patologie psicologiche dei bambini è importante».
La storia in 3D può essere indirizzata. L’immersione e il transfer nella psicologia del bambino offre due o tre risposte ai possibili comportamenti rispetto all’evoluzione di ciò che accade. Ma quando il transfer va avanti, quasi sempre la tendenza è la fuga, l’isolamento. Qualunque sia la scelta virtuale nella storia, il finale resta però sempre tragico.
«Usiamo tecnologie virtuali per curare molte patologie psicologiche infantili – dice Annamaria Schena – Prevenire e curare, facendolo sembrare un gioco, è importante. Nel caso di questo game sulla violenza in famiglia, i pazienti sono i genitori che devono sapere come le conseguenze di alcuni loro comportamenti ricadono sulla psicologia dei figli».